#consiglidimusica a cura di Davide Bonetti*
20 agosto 1968, ore 23 circa: gli eserciti di quattro paesi del Patto di Varsavia – Unione Sovietica, Bulgaria, Polonia e Ungheria – danno il via all’Operazione Danubio e invadono la Cecoslovacchia, su diretto ordine di Mosca.
La decisione scaturita dalla riunione del Politburo sovietico del 16-17 agosto, che – favorita anche dalla neutralità degli Stati Uniti sulla questione – aveva sancito il fallimento dei negoziati, rappresenta un’applicazione ante litteram della cosiddetta “dottrina Brežnev”, esplicitata pochi mesi dopo e destinata a rimanere il leit-motiv della politica estera sovietica almeno fino a Gorbačëv: appoggiare o imporre negli stati satellite governi di provata fedeltà, usando se necessario anche la forza.
Il bilancio dell'Operazione Danubio è drammatico: 137 morti, centinaia di feriti; e la mattina del 21 agosto 1968, l’arresto del leader riformista Alexander Dubček segna di fatto la brusca fine della stagione politica che è passata alla storia come “Primavera di Praga”.
Iniziata il 5 gennaio 1968 con l’elezione di Dubček a segretario del Partito Comunista di Cecoslovacchia, rappresentò un tentativo, seppur timido, di avviare un processo di democratizzazione lungo tre direttrici: un certo grado di decentramento economico, in parziale deroga ai principi dell’economia collettivistica, avrebbe dovuto accompagnarsi a una revisione del centralismo amministrativo e, sul piano sociale, a un allentamento delle restrizioni alla libertà di espressione, di stampa e di movimento.
Riforme, queste, che nelle intenzioni dei suoi fautori avrebbero dovuto condurre a un “socialismo dal volto umano”, come lo definì lo stesso Dubček, assolutamente determinato a rimanere nel solco del marxismo sovietico e per nulla intenzionato a mettere in discussione l’egemonia e il ruolo guida dell’URSS, ma al contempo convinto che il rispetto dell’ortodossia comunista potesse essere coniugato, quantomeno sul piano interno, con la concessione di maggiori libertà.
Di diverso avviso fu, lo abbiamo visto, la dirigenza sovietica, preoccupata per le possibili ripercussioni di queste “aperture” sui rapporti di forza nell’ambito del Patto di Varsavia e sugli equilibri interni alla Russia stessa: tutte le riforme introdotte da Dubček furono formalmente cancellate dalla nuova dirigenza imposta da Mosca, con l’eccezione della divisione della Cecoslovacchia in due nazioni distinte, la Repubblica Ceca e la Repubblica Slovacca, che sarebbe comunque divenuta effettiva solo dopo la caduta del blocco sovietico.
La canzone che abbiamo scelto a commento di questi fatti non fa riferimento alla Primavera di Praga, ma coglie bene lo sdegno, la rabbia e il dolore che molti, tra i quali anche marxisti e comunisti convinti, dovettero provare di fronte alla feroce repressione di quelle, e di altre, istanze libertarie.
Grzegorz Przemyk aveva solo diciotto anni quando, il 14 maggio 1983, morì in seguito a un barbaro pestaggio da parte della Milicja Obywatelska, la polizia politica del regime comunista della Polonia. La sua unica “colpa” fu aver festeggiato il proprio diploma il 12 maggio 1983, data che coincideva con l’anniversario della morte di Józef Piłsudski, leader della Seconda Repubblica Polacca e considerato un nemico di classe da parte delle autorità comuniste di Varsavia.
A Grzegorz Przemyk è dedicato questo struggente, rabbioso, tenero capolavoro di Pierangelo Bertoli; a tutti coloro che sono morti per le proprie idee vogliamo dedicarlo, noi, oggi.
Ascolta la canzone: https://youtu.be/FAAOfJmM-R8
* Coordinatore settore musica Violet Moon